
La compassione nei confronti di se stessi si realizza attorno a tre elementi essenziali: la gentilezza che trasforma la durezza e la critica giudicante in comprensione; il riconoscimento della nostra umanità condivisa, ossia l’esperienza di connessione con gli altri e con la vita al posto del senso di alienazione ed isolamento; e, infine, la Mindfulness, ossia la capacità di tenere la nostra esperienza in una consapevolezza equilibrata tra interno ed esterno, anziché esagerare o ignorare il nostro dolore o disagio. È necessario combinare questi tre elementi per espandere la nostra capacità di self compassion.
La gentilezza
Nella nostra cultura è posta molta enfasi sulla necessità di essere gentili nei confronti degli altri. Una gentilezza però che rischia di essere più un atto formale che sostanziale. Inoltre siamo quasi totalmente distratti dall’idea di nutrire una gentilezza nei confronti di noi stessi.
Anzi, accogliamo i nostri errori con asprezza, vergogna e in qualche modo riteniamo assurda l’idea di confortarci. Eppure lo sviluppo di una matura capacità di regolazione delle nostre emozioni, passa proprio attraverso la crescita della nostra capacità di consolarci.
La capacità di confortarci è uno dei segnali di maturità emotiva dei bambini: una abilità che alla nascita è quasi totalmente affidata alla cura dell’ambiente esterno.
Da adulti, la nostra incapacità di gentilezza nei confronti di noi stessi, si traduce in una serie di richieste – implicite o esplicite – rivolte agli altri. Ci aspettiamo che l’esternazione del nostro dolore susciti cura, attenzione, comprensione e, infine, gentilezza. Questa aspettativa rimane spesso delusa: perché da adulti pensiamo che ognuno sia capace di confortare se stesso e di non dipendere dall’intervento esterno.
Questo non significa che non dobbiamo condividere o aiutare: significa piuttosto che non dobbiamo affidare agli altri quello che non abbiamo nemmeno tentato di fare: ossia non dovremmo affidare alla regolazione interattiva le nostre emozioni, se non dopo che abbiamo visto che esiste una sostanziale incapacità di autoregolazione
La gentilezza e il trauma
Le nostre emozioni sono fonti importanti di informazioni: anziché giudicarle dovremmo guardarle con interesse e curiosità e imparare come confortarci e come attivarci, quando siamo troppo ritirati. In ogni caso le emozioni suscitano risposte anche negli altri e sono suscitate dai nostri scambi relazionali. Anche quello che accade nella relazione con gli altri ha l’effetto di attivarci – positivamente o eccessivamente – o confortarci ma l’aspettativa è che un adulto non dipenda troppo dai processi interattivi per il conforto e l’attivazione e che ci sia un equilibrio dinamico tra quanto contiamo su di noi – autoregolazione – e quanto contiamo sugli altri – regolazione interattiva.
Quando siamo sottoposti ad un trauma, fisico o emotivo, questo equilibrio si rompe e uno degli effetti del trauma è che esageriamo in uno dei due sensi: o diventiamo eccessivamente dipendenti da qualcuno o diventiamo eccessivamente ritirati. Ristabilire l’equilibrio tra apertura relazionale e ritiro è uno degli elementi centrali della cura. Questo processo di ri-equilibrio è fortemente sostenuto dalla gentilezza nei confronti di se stessi. In questo caso la gentilezza riparte dal centro – il proprio Sé – per riportarci ad un livello adeguato di apertura relazionale.
Gentilezza significa smettere di giudicarci per ciò che siamo o che abbiamo fatto per comprendere le nostre fobie e fallimenti. Comprende il vedere chiaramente come e quanto ci facciamo male e comprende un coinvolgimento attivo per confortarci, riconoscendo la difficoltà che stiamo attraversando non come una colpa ma come una offerta di pace dalla guerra interiore a cui ci spinge ilperfezionismo.

La regolazione interattiva e il senso della nostro comune umanità
Quando giudichiamo i nostri fallimenti o la nostra inadeguatezza, rinforziamo la sensazione di essere separati e isolati dagli altri. Rinforziamo i nostri confini e lo facciamo sulla base di una sensazione di limite relativo a noi stessi. Chi siamo e chi pensiamo di essere però è strettamente interconnesso con la nostra relazione con gli altri e questo rende il nostro biasimo abbastanza ambiguo.
Se guardiamo ai nostri fallimenti personali spesso possiamo accorgerci che non sono una vera “scelta” ma un insieme connesso alle circostanze esterne. Non abbiamo il controllo completo sulle nostre azioni ma queste sono spesso l’espressione di un insieme di circostanze che si realizzano in un preciso momento. Questa interconnessione tra noi e gli altri e i fatti della vita ci spaventa perché ci spinge a riconoscere che non abbiamo il controllo sulla nostra vita, su ciò che siamo e su come vanno le cose.
Quando riconosciamo che ciò che ci accade è frutto di un insieme infinito di elementi, spesso poco identificabili, non abbiamo bisogno di prenderci “la colpa personale” per come sono andate le cose. Non abbiamo bisogno di biasimare noi stessi o gli altri Da questa comprensione della profonda e misteriosa interconnessione di cause possiamo far sorgere un vero sentimento di comprensione e compassione nei confronti delle nostre inadeguatezze e dei nostri fallimenti.
A questo punto è importante distinguere tra giudizio e discriminazione. La discriminazione ci permette di riconoscere le cose così come sono e di interrompere il ciclo di conflitto e sofferenza legato all’errore. Il giudizio tenta invece di semplificare le cose attraverso delle etichette generali che non colgono la complessità del cambiamento ma fotografano una situazione e la espandono per sempre. La discriminazione ci permette di cogliere la complessità, le cause che hanno prodotto una situazione e anche la loro possibilità di sviluppo futuro.
Il terzo ingrediente: la mindfulness
Il terzo elemento della compassione verso se stessi è lamindfulness: una visione chiara e non giudicante, accettando ciò che è, cos’ì com’è,nel momento presente. La mindfulness è la base perché è un percorso di consapevolezza non reattiva. Quando nella nostra vita arriva un dolore o un fallimento, tendiamo a focalizzarci sull’evento, anziché su cosa l’evento ha provocato nel nostro mondo interno. Nel momento in cui spostiamo la nostra attenzione dall’evento, a cosa l’evento ci ha suscitato, compiamo un atto rivoluzionario: gentile e consapevole insieme. Ci apriamo la possibilità di un nuovo sentimento di comprensione e compassione.
©A cura di Nicoletta Cinotti

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