
Esattamente un mese fa si è tenuto a Roma, nel bellissimo scenario della sede del CONI, la conferenza dell’international Coach Federation: due giornate dedicate al tema dell’ integrazione, per arricchire il coaching attraverso l’apporto di diverse discipline nell’ottica di offrire una risposta sempre più completa ai propri clienti.
Io ho partecipato con una relazione su “Mindfulness per sviluppare la presenza nel coaching”: una esperienza che mi ha arricchito e che vorrei condividere attraverso 5 elementi chiave.
La prima chiave: vedere quello che funziona
Lo stile del coaching è uno stile che si focalizza su quello che funziona, sul miglioramento basato sullo sviluppo delle risorse personali. Un approccio che è molto sintonico con la mindfulness perché – come dice Kabat Zinn – fino a che siamo vivi è molto di più quello che funziona che quello che non va in noi. Trovare un modo realistico di ricordarselo e svilupparlo è un passaggio che ci rende immediatamente presenze consapevoli.
Seconda chiave: integrare aspetti diversi
Molto spesso finiamo per usare pochi strumenti – quelli che conosciamo meglio – nel nostro bagaglio professionale. In questo modo finiamo per avere una prospettiva limitata e limitativa di noi e dei nostri clienti. Ci dimentichiamo quello che Lowen (1977) diceva “Nell’armamentario (terapeutico) c’è posto per ogni tecnica. Tutte funzionano qualche volta. Nessuna funziona sempre. Quello che è rilevante è il modo che abbiamo di intendere la vita e noi stessi“. Questa frase descrive bene quello che è successo a Roma: tanti strumenti pratici, nella consapevolezza che non si può pensare che una sola prospettiva vada bene per tutti. E, nell’integrazione, tanto desiderio di ascoltare queste diverse prospettive che dicono in fondo la stessa cosa: creare un clima di fiducia.
Terza chiave: creare un clima di fiducia
Nessuna tecnica può funzionare se non è inserita in un clima di fiducia e la fiducia è la base sicura di qualsiasi relazione. Sia della salute di un ambiente di lavoro – come ha perfettamente espresso Ali Reza Arabnia nella sua prolusione iniziale – che nella crescita personale come ha espresso Paolo Milanoli, nel suo ottimo e appassionato intervento, “Perché è più importante il percorso della meta”.
Una fiducia che è prima di tutto capacità di essere self confident e poi capacità di creare un clima costruttivo attorno ad un progetto. Affermazione declinata in modo diverso anche da Paola Brumana.
Quarta chiave: l’integrazione tra l’essere e il fare
L’intervento conclusivo della prima giornata, di Daphna Horowitz, era pienamente nel cuore del tema mindfulness: il fare, se non è sostenuto da una presenza consapevole, rischia di essere controproducente. L’essere da solo non basta: l’intelligenza emotiva non è una intelligenza contemplativa ma la capacità di far nascere dalla consapevolezza la giusta azione. Quella che facciamo non spinti dalla reattività ma perché abbiamo scelto come muoverci e in quale direzione andare.
Infine la rivoluzione di crescere a partire dalle nostre radici
La mia relazione ha seguito il flusso che si era creato, In particolare quello suscitato dalla relazione di Paolo Milanoli: nessun intervento che renda il nostra partner dipendente è un buon intervento. Nello sport, nella professione, nella vita abbiamo bisogno di aiutare le persone ad essere se stesse, ad usare con saggezza e consapevolezza le proprie risorse. Abbiamo bisogno di offrire strumenti che possono essere utilizzati in autonomia. La mindfulness non è uno strumento ma uno stile di vita che ha tanti piccoli e grandi aiuti quotidiani: la pratica formale si intreccia con la pratica informale, rendendo così accessibile il nostro patrimonio di presenza mentale, in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo.Così darsi del tempo che sembra non produttivo diventa dichiarare affetto e cura non solo verso se stessi ma anche verso le nostre relazioni, vicine e lontane.
Ecco questo è il coaching che abbiamo visto a Roma. Niente male vero?
© Nicoletta Cinotti 2016
Foto di © JMPRomero