
Qualche giorno fa ho ricevuto una lettera: era una lunga lista di parole che terminava con una parola. Grazie. Me l’ha mandata un paziente, per posta, dopo la fine della nostra terapia. Una parola per ogni seduta. Mi ha colpito tantissimo per tante ragioni, tutte intime e personali.
La prima è che sto riflettendo molto sulla scrittura e questa lettera, scritta a mano, è stata di una sincronicità sorprendente. La seconda perchè mi capita spesso, alla fine di una seduta, di chiedere alla persona di dare un titolo. Non ho mai pensato che questa persona avrebbe raccolto tutti i titoli di tutte le sedute. Uno dopo l’altro, in fila come soldatini della “battaglia dell’anima” che abbiamo fatto insieme. Aveva segnato anche le sedute saltate: alcune erano segnate come vacanza, altre come vuoto, altre come mancanza
La terza ragione è stato cosa mi è successo, fisicamente, mentre leggevo. Le parole battevano nel corpo, come chicchi di grandine. Mi hanno sorpreso, commosso, spaventato, fatto ricordare, fatto dimenticare, fatto piangere. Alla fine erano un rap – che amo molto – della nostra relazione terapeutica. Poi sono arrivata all’ultima parola: grazie. E mi sono accorta che tutte le precedenti erano un preludio di quella parola che forse lui diceva a me ma che sicuramente io, in quel momento, dicevo a lui.
Com’è fisica la gratitudine!
Mi sono accorta in quel momento di quanto sia fisica la sensazione di gratitudine: fisica e interiore. Di quanto sia connessa con la sensazione di sazietà, con la parola “Abbastanza” (abbastanza buona, abbastanza ricca, abbastanza piena). Di quanto sia una parola che annulla il rilevatore di discrepanza tra dove siamo e dove vorremmo essere. Di quanto possa includere quello che è negativo e trasformarlo in una parte del percorso. In alcune sedute il titolo che aveva dato era “Cattiva”, “Cattivissima”, “Tigre assenza”, Dolore atroce, Fame atroce, Orrore, Paura. Non erano parole facili. Forse, ho pensato, la mia franchezza era stata eccessiva in quelle sedute. Forse, ho pensato ancora, non erano rivolte a me ma a sua madre. In ogni caso erano un contrappunto necessario di altri titoli, di altre parole che avrebbero – da sole – reso quella lettera troppo piatta. La gratitudine, mi appariva chiaro in quella lista, è un insieme straordinario, di sincerità, appagamento e presenza. La sincerità rende la gratitudine tridimensionale, non l’appiattisce con la cortesia. Le offre spessore. Perchè le emozioni, inutile dirlo, hanno spessore, intensità, carica e presenza.
E se me l’avesse detto a voce?
Come sarebbe stato se, invece che per lettera, queste cose me l’avesse dette a voce? Io sono timida: gli anni mi hanno insegnato a dominare la mia timidezza. Rimangono tracce interiori ma non mi sembra che, esternamente, sia tanto visibile se non come una fretta che provo quando qualcuno mi fa un complimento oppure si trattiene troppo a lungo. Se me l’avesse detto a voce sarei stata imbarazzata e timorosa di perdere l’intensità di quella comunicazione. Così la posso tenere con me. Leggere e rileggere. Conservare. Posso ricordarmela e sapere che è lì che mi aspetta. Che nei momenti in cui, in una psicoterapia, mi sembra di scavare in miniera, posso avere la prova cera che è possibile arrivare alla luce.
La sorpresa della posta
La mia cassetta della posta è piena di bollette e qualche – rara per fortuna – raccomandata. Non ci sono più cartoline e nemmeno lettere da tanto tempo. Facciamo prima con il telefono. È più immediato e, purtroppo, più soggetto a dimenticanza.
Io sono una fanatica del decluttering: mi piace il vuoto nell’armadio e nelle stanze. Ogni stagione elimino qualcosa e cerco in tutti i modi di evitare accumuli. Eppure conservo ogni biglietto che mi è stato regalato. Ogni lettera. Ogni cosa in cui ci sia la calligrafia di chi me l’ha scritto. Quel tempo dedicato a scrivere mi sembra che renda tutto più prezioso. Così è come se il tempo della relazione si dilatasse.
La terapia era finita da un po’ quando ho ricevuto questa lettera. Eppure, il riceverla, ha fatto tornare questa persona presente. E la gratitudine un sentimento praticabile in ogni momento
Praticare la gratitudine, praticare l’appagamento
Forse potremmo ipotizzare che la gratitudine sia una pratica che si basa su tre aspetti:
- La consapevolezza del corpo, per tornare con la consapevolezza al momento presente
- La memoria che ci permette di ricordare qualche evento specifico
- La sensazione dell’appagamento, ossia il sentire nel corpo il retrogusto di quella esperienza. Un retrogusto che si rinnova in ogni momento
Praticare la gratitudine non è banale: ci permette di coltivare la sensazione interiore di appagamento. La consapevolezza che la nostra vita ha tanti momenti luminosi e che le nostre relazioni sono una fonte di gioia. Non è la gratitudine formale, quella di cui parlo. È la gratitudine spontanea. Quello che possiamo coltivare non è tanto l’esperienza della gratitudine quanto la nostra abilità a riconoscerla. Quando questo paziente scriveva pazientemente il titolo di ogni seduta non credo che provasse sempre una sensazione piacevole. Anzi ne sono certa. Eppure fissandola sulla carta riconosceva a quell’esperienza un valore e una preziosità e di queste era grato.
E, in fondo, cos’è la gratitudine se non una forma di restituzione di ciò che abbiamo ricevuto?
E quale modo per restituire se non attraverso una lettera?
[box] Scrivere una lettera di gratitudine
Forse ci sono molte persone alle quali potremmo desiderare di manifestare la nostra gratitudine. E, forse, questo può essere il periodo dell’anno giusto per farlo.
Farlo per scritto rende onore al fatto che le relazioni meritano tempo. Anche il tempo di scrivere una lettera. [/box]
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Foto di ©Vincenzo Maria Capua