“Prima soffrivo senza senza vivere. Non sentivo nulla. Ora vivo….e posso soffrire per quello che sento. Ma va bene così….perché vivo!” (una paziente con anoressia in fase di remissione). In un percorso terapeutico con pazienti con disturbo alimentare è molto frequente attraversare una fase in cui vi è il “primo contatto” con il sentire. In genere corrisponde a quel momento in cui il sintomo, anoressico o bulimico, si avvia verso una graduale remissione, e lascia spazio per qualcos’altro. Lì è possibile che le emozioni inizino a farsi strada e la relazione terapeutica venga vissuta come un posto sicuro in cui sperimentare qualcosa di rimosso, negato, congelato.
La manipolazione delle emozioni
Alexander Lowen nel suo prezioso volume “Il linguaggio del corpo” scrive che “Il caos che può determinarsi nella vita di un bambino è dovuto a forze esterne che ne hanno turbato la naturale, armoniosa autoregolazione. Lo sforzo ad essere buono, limitando l’espressione emotiva, induce nel bambino la ribellione che, però, temendo di perdere l’amore, finirà per utilizzare la seduzione e la manipolazione. Così al piacere di “sentire quello che prova” si sostituisce quello di “dover sentire quello che agli altri piace si senta”. Questo processo interno, approfondito da Lowen in particolare per la formazione del carattere psicopatico, è presente in molte strutture caratteriali e nelle dinamiche genitori-figli, soprattutto nelle relazioni in cui il livello di consapevolezza dei genitori rispetto alla manipolazione in atto, è molto basso, quasi inesistente. Nelle situazioni più patologiche il bambino impara a negare tutto ciò che sente…….e si ammala gravemente.
La negazione dei sentimenti nei pazienti con dca
Il disturbo alimentare può essere considerato come un “tentativo” di cura di sé, di auto- accudimento dei propri bisogni e delle proprie richieste che non possono e non devono essere espresse. E’ così possibile la realizzazione di una identità, altrimenti minacciata: non è possibile essere quel che si è, non è possibile esprimere quel che si sente. Il dolore che si prova per il non riconoscimento di sé non potendo essere affrontato, espresso, vissuto, viene negato in una continua coazione dove il cibo sostituisce altro e il corpo diventa uno strumento meccanico di controllo e annullamento di Sé. Tra i vari tentativi di non dare voce al mondo emotivo, con questi disturbi si scopre casualmente che investendo e concentrando esclusivamente le proprie forze sul controllo del cibo e la gestione del proprio peso corporeo si possono “sedare” i sentimenti più dolorosi, fino ad arrivare al punto di anestetizzarli.
Volontà come negazione del piacere
“La volontà è un meccanismo di emergenza”, sottolinea Lowen nel suo libro “Il piacere” e ci spiega come essa “entri in azione ogni qual volta che , per far fronte a una crisi, si richiede uno sforzo superiore alla norma”. La volontà funge cioè da spirito di sopravvivenza di fronte a quanto sembra costituire una possibilità di essere sopraffatti. E’ molto chiaro per chi si occupa di disturbi alimentari quanto sia elevato il livello di volontà di queste pazienti, spesso considerate “tutte d’un pezzo” da familiari ed amici, e realmente guidate da una volontà di ferro che gli permette di portare avanti un progetto di vita….di non vita. “La volontà- prosegue Lowen – è in antitesi con il piacere”. Quando si usa la volontà per raggiungere uno scopo, il corpo reagisce come se si trovasse in uno stato di totale emergenza. Se la meta da raggiungere è funzione del processo creativo, allora fa parte del principio di realtà, ed il suo raggiungimento avrà come risultato il piacere. Se la meta è fuori dal principio di realtà, perché il solo scopo è il controllo di ogni desiderio, sensazione ed emozione….il risultato sarà la negazione del piacere, nucleo dei disturbi alimentari.
Per guarire bisogna soffrire?
Sembra proprio che la risposta a questa domanda sia affermativa, anche se la sofferenza da cui ci si è abilmente difesi nell’infanzia è sicuramente tollerabile da adulti, ma non è possibile saperlo fino a che non si decide di attraversarla. Ciò che il bambino teme, ciò da cui fugge nell’infanzia sappiamo bene essere il dolore. Il dolore della svalutazione, del mancato riconoscimento, della solitudine, e la paura di non riuscire a superarlo. Nei disturbi alimentari vuol dire accettare di lavorare “oltre” il sintomo che occupava lo spazio psichico e proteggeva da ogni sofferenza. Vuol dire lavorare sulle tensioni che si sono cronicizzate sotto il dominio della volontà. Vuol dire accettare di affrontare i passaggi dolorosi della cura senza ricorrere alle illusioni della patologia.
Liberi e consapevoli: una scelta difficile
Allentare questi blocchi non è mai facile. L’illusione è che essi abbiano salvato la persona da tutte le sofferenze, dal non essere riconosciuta nella propria individualità, e dalla terribile solitudine che questa consapevolezza comporta. Attraverso il lavoro con il corpo si possono ammorbidire le tensioni e raggiungere un livello di radicamento tale da permettere di contattare la realtà adulta. Nella terapia dei dca questo viene spesso percepito come una scelta fra essere sé stessi – liberi e talvolta soli – e tenersi stretti il sintomo per la paura del dolore e del piacere. Concludo con le parole di una giovanissima e coraggiosa ragazza…in cammino verso la guarigione e verso la scoperta di sé: “Prima avevo un’identità….ero la ragazza che vive d’aria….adesso mi tocca scoprire chi sono! Questo mi fa tanta paura.”
“Dunque il corpo non è tanto una
prigione che mi isola dal mondo,
quanto una gabbia che presenta
agli altri, spettatori stupefatti,
l’esemplare che l’abita.”
Dumouchel, 2008
a cura di Silvana Nozzolillo
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