
Molti di noi sono appassionati del loro lavoro – almeno io lo sono – eppure impariamo a nostre spese che la felicità associata al raggiungimento di un obiettivo non è tanto duratura, oltre che essere piuttosto faticosa. Arrivare ad Harvard, per uno studente americano, è una realizzazione piuttosto faticosa oltre che prestigiosa. Forse è per questo che è nato un frequentatissimo corso che insegna qualcosa su come essere felici (e non necessariamente su come essere i più bravi). Abbiamo capito che realizzare i propri sogni non equivale ad essere felici, anche se dovrebbe esserlo. Come mai?
Siamo in molti a fare questa confusione tra successo, motivazione, l’impegno, la realizzazione personale e professionale e la felicità. Sono tutte cose bellissima ma richiedono, sforzi, fatica, impegno e dedizione. Un coinvolgimento che spesso va al di là delle circostanze. E proprio per questo è più facile che ci rendano stressati anziché felici.
Se vuoi essere felice apprezza ogni momento
Partiamo da alcune considerazioni, banali quanto vere. I miei genitori sono anziani e sono arrivati alla vecchiaia con relativamente pochi acciacchi (mio padre ha superato un cancro e mia madre diverse malattie ma le ho sempre considerate parte del gioco). Abbiamo sempre pensato che se si ammalavano sarebbero guariti. Adesso sono in una fase che se si ammalano non guariscono, deteriorano. Improvvisamente ogni momento passato con loro è diventato, per me, prezioso. Questa consapevolezza della preziosità di ogni momento è un ingrediente fondamentale della felicità. Nello stesso tempo quando li vedo soffrire mi domando dove sia la felicità. Non è nella loro salute e nemmeno nella mia preoccupazione. Adesso per noi la felicità si è spostata nello stare insieme. Nel gustare ogni momento del nostro stare insieme. Ne intravediamo la finitezza e questo lo rende prezioso. Anche questo è un elemento della felicità: saper trovare il punto di gioia in ogni situazione anziché continuare a cercare quello che, in passato, era stato il nostro punto di gioia: essere disponibili a ridefinirlo al mutare delle condizioni.
La meditazione delle ortensie
Nel giardino dei miei genitori le ortensie la fanno da padrone. Sono un muro colorato che ha sempre suscitato la gioia di mia madre e anche il suo orgoglio. Io le ho sempre guardate un po’ indifferente. Nella meditazione di stamattina quelle ortensie comparivano e scomparivano dalla mente continuamente. Ogni volta che comparivano erano una ondata di nostalgia, gioia, rimpianto, speranza. Raccoglievo queste emozioni e poi tornavo al mio respiro. Sarebbe stato semplice farmi trascinare dai tanti ricordi legati alle ortensie e dal flusso dolce e ammaliante delle sensazioni che questi ricordi mi provocano. Il pensiero delle ortensie si alternava a quello della fisioterapia che devo prenotarle e delle visite di controllo che dovrebbero fare. La mente salta da una cosa all’altra in continuazione e io sono in continuazione attirata dai pensieri che riguardano la loro salute. Poi torno al mio respiro. Non è un atto egoistico. È un atto di cura nei confronti di me stessa: essere trascinata o completamente assorbita da loro non darebbe garanzie di lunga vita a nessuno e nemmeno di felicità. Hanno bisogno delle mie cure e non che mi faccia assorbire completamente dalla mia attenzione per loro. Ritornare a me è il modo migliore per trovare un equilibrio instabile verso la felicità
Meditare sulla malattia
I koan zen, di antica origine cinese, includono sempre il tema della malattia e della morte nella loro presentazione originaria. E c’è un detto che dice che senza salute non c’è meditazione. Possiamo fare molte supposizioni e discorsi altamente teorici sul perchè il tema della malattia e della morte torna nella tradizione meditativa in tutte le religioni ma la considerazione più ovvia è anche la più semplice: tutti noi siamo destinati a sperimentare entrambi. Non possiamo pensare che la felicità dipenda dall’assenza di queste due condizioni. Non possiamo lasciare niente fuori. Come possiamo essere in pace con questa notizia?
Spesso la nostra felicità si trova propria al centro del nostro dolore. Tutti i risentimenti e le incomprensioni che potevo avere con mia madre e mio padre sono state portate via dalla loro vecchiaia. Vederli indifesi e grati mi ha messo in pace con rivendicazioni vecchie e inutili. E mi sta insegnando a fare i conti con il fatto che anch’io invecchierò, anzi, che anch’io sto invecchiando e la loro anzianità mi prepara alla mia.
Quando mi ammalai qualche anno fa, quel periodo fu uno dei più felici della mia vita. La malattia aveva ribaltato le prospettive. Non ho mai capito se c’era un fatto neurologico dietro a quella felicità (avevo avuto due interventi alla testa) ma ancora rimpiango quella gioia leggera di essere viva e la grazia gentile che avevo in quei giorni nei confronti degli altri. È certo che è proprio nei momenti più difficili che spesso troviamo una saggezza e un equilibrio che in molti altri momenti, relativamente sereni, ci manca.
Non c’è una prescrizione né una ricetta per la felicità
Non c’è una prescrizione o una ricetta per essere felici ma possiamo coltivare le condizioni che ci permettono di sperimentare questa emozione e di apprezzarne la transitorietà. Se pensiamo che la felicità è quello che ci aspetta quando tutto sarà a posto, siamo destinati ad avere veramente pochi momenti di vera felicità. Se pensiamo che ci sono condizioni in cui possiamo sperimentarla, a prescindere dalle circostanze esterne che viviamo, abbiamo la possibilità di provare più serenità e felicità di quello che avremmo creduto.
La felicità è una questione filosofica?
Quando ero al liceo e sperimentavo tutte le turbolenze di una adolescenza difficile arrivai alla conclusione che tutti i filosofi costruivano le loro teorie per rispondere alla stessa, ripetuta domanda “L’uomo può essere felice?” “E se può essere felice quali mezzi gli consentono di ottenere la felicità?”
Colpita da questa intuizione la proposi al mio professore di filosofia che concordò abbastanza sulla mia idea che tutti si ponevano questa domanda e sentenziò (da buon pessimista cosmico) “Nessuno può pensare che la felicità gli verrà servita su un piatto d’argento solo perchè è nato. Soprattutto se non sappiamo cos’è”. Dopo quella risposta lo amai segretamente per tutto il liceo e quando scoprì che, malgrado anche lui mi amasse (ne ero certa), aveva sposato un’altra ne soffrì quasi per tutta l’università. Poi mi innamorai del professore di Psicologia clinica ma stavolta dentro di me glielo dissi subito: niente matrimonio!
Nessuno può pensare che la felicità gli verrà servita su un piatto d’argento
Così per essere felici non possiamo esimerci da chiederci che cos’è per noi la felicità e darci degli strumenti per coltivarla, a prescindere dalle circostanze esterne. E tutti noi abbiamo questo capacità di esplorazione e di giusta risposta. Basta darcene l’opportunità.
Il nostro lavoro quindi consiste nel prestare attenzione a questo argomento, nel riconoscerla quando sorge e nel rimuovere gli ostacoli che incontriamo. Intendo gli ostacoli interiori perchè quelli esterni spesso non sono tanto modificabili.
Possiamo provare felicità se nella nostra vita proviamo anche sentimenti di infelicità? Si, possiamo. Quando mia madre è caduta ho disdetto molti impegni per starle vicino. Erano impegni che amavo. Eppure la priorità era cambiata e trovavo felicità nel vedere le ortensie in sua compagnia.
La mattina dopo, svegliandomi nel letto della loro casa, mi aveva assalita una strana e cupa solitudine. In quel momento ho dovuto chedermi “Dov’è adesso la mia felicità?” Non era scontato che comparisse subito, come avrei voluto da bambina. Quando svegliarmi aveva il premio di passare qualche tempo da sola con lei. Prime della casa ad alzarci. In quel momento io mi sarei alzata e lei sarebbe rimasta a letto. Quindi dov’era la mia felicità? Farmi quella domanda era necessario perchè nei momenti difficili possiamo perdere il filo della felicità. È sottile come i fili di una ragnatela e, a volte, possiamo scorgerlo sono il controluce. Chiedersi dov’è ci aiuta a trovarla.
Dove cercare le chiavi?
C’è una storia che mi piace molto. È la storia dell’uomo che cercava le chiavi sotto un lampione nel buio della notte. Un passante si offrì di aiutarlo e iniziarono a perlustrare insieme il cono di luce del lampione fino ai bordi dell’oscurità. Alla fine il passante chiese dove avesse perduto le chiavi esattamente e l’uomo indicò un punto nel buio piuttosto lontano dal lampione. Ma, scusi, perchè allora le cerca qui? Perchè qui c’è la luce! Ecco con la felicità rischiamo di fare la stessa cosa. La cerchiamo non dove l’abbiamo perduta ma dove ci sarebbe più facile vederla. L’invito è, invece, a domandarsi in ogni momento in cui l’abbiamo persa, dov’è. Troveremo che, anche nei momenti più difficili, abbiamo uno spiraglio di felicità.
La felicità è timida: vuole essere sicura che la desideriamo davvero. Per questo non possiamo oscurarla con comportamenti distruttivi o ignorarla per scambiarla con il successo o uno dei suoi succedanei. Quella bella ragazza della felicità richiede un’attenzione gentile. In cambio ne avremo altrettanta attenzione e gentilezza e non ci tradirà mai sposando qualcun altro!
© Nicoletta Cinotti 2018
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