Il dolore spesso si accompagna con una domanda: perché? Perché è successo, perché proprio a me? Perché proprio ora?
Il perché è un avverbio che dichiara l’incomprensibilità rispetto a quello che è accaduto. E, in effetti, nel dolore non c’è niente da comprendere. Sappiamo che esiste, che può arrivare al di là del merito e della ragione. Che cambia la prospettiva con cui guardiamo a tutto il resto. Il dolore merita condivisione, compassione. Merita il riconoscimento della nostra comune umanità. Non chiede esposizione. Non chiede di essere mostrato e nemmeno esibito. Non chiede spiegazioni.
Eppure, molto spesso, di fronte al dolore, finiamo per avere un atteggiamento di curiosità che ci spinge a chiedere quando, invece, non ci sono risposte ma solo domande. Forse chiediamo con la speranza di capire cosa può evitare quel rischio. Forse chiediamo nel tentativo di farci più vicini. Di muovere, dentro di noi, la compassione. Forse chiediamo perché, in quel momento, solo la domanda rivela il nostro animo. Se la compassione è un verbo, la domanda è il luogo dove nascono le preghiere.
C’è un proverbio zen che dice che “la domanda e la risposta nascono insieme”. Forse questo è ciò che definisce una preghiera. Fare una domanda è già avere una risposta perché implica che c’è qualcosa d’altro. Nel momento in cui chiediamo aiuto, lo stiamo già ottenendo, sebbene non sia esattamente l’aiuto che avevamo chiesto. Susan Moon
Pratica di mindfulness: La pratica della gentilezza (meditazione live)
© Nicoletta Cinotti 2016 Le radici della felicità Foto di ©Toffycrackle
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